Oggi, all’ILVA di Bagnoli Papa Francesco ha
detto:
“Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere
non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro,
senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di
domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione
industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà
diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non
pensionati: lavoro. Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia;
ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare
un assegno dello Stato, e arràngiati. <Ma, ho per mangiare?>. Sì. <Ho
per mandare avanti la mia famiglia, con questo assegno?> Sì. <Ho dignità?>
No! Perché? Perché non ho lavoro. Il lavoro di oggi sarà diverso. Senza lavoro,
si può sopravvivere; ma per vivere, occorre il lavoro. La scelta è fra il sopravvivere
e il vivere. E ci vuole il lavoro per tutti. Per i giovani… Voi sapete la
percentuale di giovani dai 25 anni in giù, disoccupati, che ci sono in Italia?
Io non lo dirò: cercate le statistiche. E questo è un’ipoteca sul futuro.
Perché questi giovani crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro
che è quello che dà la dignità. Ma il nocciolo della domanda è questo: un
assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve
il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti. Credo di avere
risposto più o meno…”
A cosa sembra riferirsi il papa? Presumibilmente alle
proposte di “reddito minimo” che sono da diverso tempo in campo, ce ne sono
diverse in Italia e all’estero. Tra le prime quella del
M5S dell’ottobre 2013, definita “Reddito
di Cittadinanza”, e quella
di SEL sul “Reddito Minimo Garantito”
e il “Sostegno di inclusione attiva”,
proposto da una commissione ministeriale del Ministro Giovannini. Quindi c’è
una proposta dell’Inps per un reddito garantito agli over 55.
Tutte queste proposte sono condizionate in vario modo,
essenzialmente all’accertamento del bisogno, ovvero della povertà. Non si
tratta quindi di misure realmente “di cittadinanza”, ovvero universaliste.
L’importo va da 600 euro mensili a oltre 1.000 con i
carichi familiari (in Germania, dove è presente, è di 350 euro mensili, cui si
aggiungono cifre per affitto e riscaldamento, in Francia 425 euro, in
Inghilterra da 300 a 500 euro).
Nella proposta di Sel i beneficiari sono “disoccupati,
inoccupati, lavoratori precari”, mentre quella del M5S, semplicemente i
soggetti residenti (comunitari) e maggiorenni. Per accedervi, però, se in
minore età, bisogna disporre di una “qualifica professionale riconosciuta”
(cosa che escluderebbe i Neet). Ma soprattutto (art. 9) il beneficiario deve
iscriversi ai centri per l’impiego, è obbligato a seguire corsi
professionalizzanti, o forse a lavorare in “progetti gestiti dai comuni e utili
alla collettività” (comma 4) per un massimo di otto ore settimanali. Inoltre,
art 10, sono individuati progetti pubblici per il “reinserimento agricolo di
aree remote, da destinare ad un’agricoltura a basso impatto ambientale ed al
turismo sostenibile, ivi compresa l’agricoltura sociale”, per la quale è
istituito un fondo per l’imprenditorialità e sono attribuiti terreni pubblici.
Il beneficiario (art 11) deve fornire disponibilità al lavoro presso i centri
dell’impiego, recarsi presso di esso due volte al mese, svolgere corsi di
formazione. Al terzo colloquio sostenuto, dice la proposta, “con palese volontà
di ottenere esito negativo” a giudizio del proponente datore di lavoro, e
quindi rifiutato, o recede senza giusta causa dal contratto di lavoro ottenuto
per due volte in un anno, o non partecipa ai progetti del Comune, perde i
benefici. Dopo il primo anno è congrua una proposta qualsiasi mansione proposta
dal datore di lavoro (ovvero si va in deroga all’art. 12, c2), ed il
beneficiario è “tenuto ad accettarle”.
Ci sono anche problemi minori, come la copertura, che
nella proposta M5S (art 1, c.5 e art 20) è demandata, entro il massimo di 17
Mld di euro, solo con le maggiori entrate derivanti dalla tassazione sui giochi
(stimata in 600 ml di euro) e altre fonti come addizionali, 8permille non
optato, somme per la difesa, etc.
La proposta di Sel, prevede invece l’erogazione di un
beneficio individuale di 7.200 euro annuali (600 euro al mese) con recupero
dell’inflazione, più contributi per le spese impreviste. In caso di famiglie di
5 componenti il beneficio sale fino a 1.900 euro. Prevede condizioni di
beneficio legate al reddito dell’anno precedente e patrimonio. Come nella proposta
del M5S la domanda va ripresentata ogni anno, dimostrando la sussistenza dei
requisiti. La decadenza si ha se si svolge altra attività lavorativa (art 7, c.
3) con reddito imponibile superiore alla soglia di 8.000 euro annuali, ma anche
(c.4) “nel caso in cui il beneficiario rifiuti una proposta di impiego offerta
dal centro per l’impiego” (se congrua).
In entrambe le proposte, oltre al riordino necessario
delle altre norme assistenziali, è presente l’istituzione di un salario minimo
legale.
Il Reddito di
Cittadinanza è presente anche nel programma di Podemos, è raccomandato
dalla Unione Europea, come visto è già presente nell’ordinamento di molti paesi
europei, e di recente è stato riproposto in modo piuttosto radicale da ambienti
iperliberali in forma di reddito universale incondizionato (e dunque senza
tutta la burocrazia necessaria per controllare i requisiti) in alcuni casi in
sostituzione dell’intera erogazione welfaristica. Dovrebbe essere così in
Finlandia, dove un governo di destra sta avviando una sperimentazione (su 2.000
cittadini sorteggiati) di un reddito universale da 560 euro al mese.
Risalendo indietro se ne rintracciano, in questa
chiave, origini in proposte sia di Milton Friedman, sia di Hayek, in entrambi i
casi come compensazione per gli effetti divaricanti del libero mercato, ma
potrebbero essere citati anche Einaudi, e il padre dell’ordoliberismo Ropke
(cfr. “Lezioni di politica sociale”).
Ad esempio, Milton Friedman, in “Capitalismo e
libertà”, un libro del 1962, al capitolo 12 scrive: “il
meccanismo più accettabile [per soccorrere i poveri senza distinguere tra
categorie], per motivi puramente tecnici, sarebbe un’imposta negativa sul
reddito” (p.285). Ovvero l’erogazione di una somma rapportata al minimo di
esenzione dalle tasse a tutti coloro che non lo raggiungono, in modo da
portarli su quel livello. Questa proposta dovrebbe sostituire “il coacervo di
misure attualmente dirette al medesimo fine” (come i sostegni ai prezzi
agricoli, le pensioni di anzianità, la legislazione sul salario minimo e le
tariffe doganali, le licenze per l’esercizio di una professione, secondo
l’elenco che fa a pa.284).
Hayek in “Legge,
legislazione e libertà”, scrive: “Non vi è motivo per cui in
una società libera lo stato non debba assicurare a tutti la protezione contro
la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito, o di un livello sotto il
quale nessuno scende. È nell’interesse di tutti partecipare all’assicurazione
contro l’estrema sventura, o può essere un dovere di tutti assistere, all’interno
di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso. Se tale
reddito minimo uniforme è fornito fuori dal mercato a tutti coloro che, per
qualsiasi ragione, non sono in grado di guadagnare sul mercato un reddito
adeguato, ciò non porta a una restrizione della libertà, o a un conflitto col
primato del diritto” (p. 292). Il
reddito minimo resta, dunque, fuori del mercato e assume il ruolo di salvagente
quando la disoccupazione o la povertà rischiano di mettere a rischio la
stabilità. Lo scopo è quindi di proteggere il mercato.
Se ne rintraccia anche una
presentazione, ma critica, nel capolavoro di Polanyi, “La grande trasformazione”, nel
quale racconta degli effetti socialmente disastrosi delle Speenhamland Law,
introdotte su spinta dei proprietari terrieri nel 1795. Si trattava di un
reddito garantito integrativo del salario, fino ad un certo livello di
sussistenza familiare, in riferimento al prezzo del pane. Ogni individuo veniva
aiutato, a spese della collettività più generale, anche se aveva un lavoro. Nel
tempo l’effetto di questa sorta di privatizzazione dei benefici e
pubblicizzazione dei costi, fu che i salari agricoli caddero sempre più e masse
crescenti di persone abbandonarono il mondo del lavoro. Del tutto diverso il
suo giudizio sulla “Vienna Rossa”, dove una massiva politica di spesa pubblica
per case e scuole, ed il blocco degli affitti, in presenza di un forte
sindacato che impedì la deflazione salariale, produsse un enorme avanzamento
delle classi lavoratrici (cfr, p.358).
Di opposto tenore la proposta di un Piano di Lavoro Garantito. La formula,
che può essere anche chiamata “Datore di lavoro di ultima istanza” (si può
vedere questo
post di Randal Wray), ed è stata formulata chiaramente da Minsky in “Combattere
la povertà”, con interventi che vanno da 1965 al 1994, un piano in cui
il governo, in modo universale offre lavoro a chiunque lo voglia e sia idoneo.
Dunque senza la possibilità che parzialità o processi di selezione, più o meno
clientelari, inducano il “mercato politico” a rendere il meccanismo funzionale
a scambi con il consenso democratico.
L’offerta di un salario minimo eguale per tutti,
unitamente alle altre forme di sostegno pubblico, non eliminerebbe il mercato e
non spingerebbe in basso i salari (in quanto non sarebbe cumulabile), al
contrario li spingerebbe potenzialmente in alto (dipende dal livello fissato
del minimo).
Hyman Minsky avanza una critica strutturale alle forme
di lotta alla povertà che partono semplicemente dal presupposto di intervenire
per salvare i perdenti, senza intervenire nei meccanismi che generano la loro
sconfitta. Ciò che bisogna produrre, per superare un capitalismo
intrinsecamente fondato sulla speculazione, i relativi investimenti e
l’instabilità esplosiva, è, a suo parere, la
modifica del mercato del lavoro, con l’effettiva determinazione di un
livello inferiore di garanzie e salari sotto il quale non si possa scendere, e il controllo degli investimenti e della natura delle produzioni per
finalità utili (uno dei suoi esempi è la disincentivazione degli investimenti e
dei consumi militari). Quello che propone è un
nuovo modello di capitalismo fondato sulla valorizzazione delle persone, il
libero impiego e lo sviluppo delle risorse in una visione lunga che deve essere
affidata necessariamente al governo (dato che le agenzie private sono sempre
“speculative”). Secondo lui, insomma: “in quel complesso sistema di prodotti,
lavoro e mercati finanziari che è l’economia capitalistica, il meccanismo di
mercato non può raggiungere e mantenere il pieno impiego. Affinché il
capitalismo possa avere successo sono necessarie istituzioni che integrino
l’occupazione privata attraverso un’offerta illimitata di lavoro” (p. 258).
Le due parti della strategia di Minsky vanno
considerate necessariamente insieme: spingere sulla socializzazione degli
investimenti (dunque sui consumi pubblici) e sullo Stato come datore di lavoro
di ultima istanza, per costringere il mercato, che altrimenti non lo farebbe, a
distribuire la ricchezza prodotta. È certamente un capitalismo interventista e
pianificato, che fa leva sul giudizio di utilità delle spese e dei redditi
guadagnati. L’idea alternativa, degli autori citati prima, secondo la quale le
carenze cognitive e le distorsioni connesse con la pianificazione intenzionale
pubblica sarebbero superabili eliminandola, in quanto non necessaria, perché il
mercato nella circolarità tra profitti ed investimenti riesce a far gocciolare
(soprattutto nella forma di occupazione) i benefici in prima fase assunti dai
possessori dei capitali, è contestata da Minsky con l’argomento che il
capitalismo è lungi dall’avere una razionalità intrinseca. L’effetto di
composizione delle scelte speculative dei singoli agenti economici porta, al
contrario, ad enormi dissipazioni di risorse, incluso quelle umane.
Portata alle sue conseguenze estreme, mentre il
“Reddito minimo” è passibile di lasciare la logica del sistema come è, o
addirittura di essere funzionalizzato da essa (secondo versioni e meccanismi di
dettaglio), il “lavoro di ultima istanza” si inserisce coerentemente solo in un’agenda
rivolta a fornire una spinta pubblica per:
-
privilegiare la
domanda interna sulla cattura di quella estera via esportazioni,
-
intervenire
insieme su domanda ed offerta,
-
premiare i consumi
collettivi su quelli individuali,
-
comprendere quale
spesa e quali investimenti non contribuiscono davvero al benessere,
-
recuperare la
sovranità in riferimento al finanziamento monetario (sottraendola alla
“sovranità del risparmiatore”, di Carli)
e molto altro.
Il punto, restando sul tema della dinamica del lavoro,
è garantire che costantemente ci siano più posti di lavoro offerti rispetto ai
lavoratori disponibili. In questo modo lo “stretto
pieno impiego” (p.71) porterebbe necessariamente ad una dinamica ad
inseguimento delle condizioni di lavoro e salariali e degli investimenti per
guadagnare produttività. Una tendenza ascendente di crescita che è fortemente
osteggiata dal capitale in quanto ha come necessaria conseguenza la perdita del
controllo. Cioè l’aumento del potere dei lavoratori rispetto al potere del
capitale.
Si tratta, come è ovvio, esattamente del contrario del
circuito deflazionario della “grande
moderazione”.
Tra i due schemi passa una cruciale differenza: i
redditi socialmente disponibili, dopo la riproduzione di materie prime e
capitale fisso utilizzato, nello schema liberale sono strutturalmente
concentrati in alto e di qui ridiscendono (se va bene in parte “gocciolano”),
mentre in ancora più piccola sono distribuiti attraverso mirate politiche
assistenziali (che sono sempre anche politiche di controllo e di
disciplinamento burocratizzate, come si vede nella pur generosa proposta del
M5S, ma anche di Sel) per garantire la stabilità politica. La gran parte si
concentrerà quindi secondo Minsky nelle dinamiche speculative promosse dalla
finanza e andrà ad alimentare anche progetti inutili o dannosi.
Nello schema preferito da Minsky i redditi sono invece
distribuiti all’origine, attraverso rapporti di forza che favoriscono il lavoro
sul capitale, ai diretti partecipanti il processo produttivo e da questi si
diffondono nella società attraverso i processi economici distribuiti nella
stessa (un impiegato ben pagato contrarrà più facilmente mutui, farà costruire
la sua casa e l’arrederà, acquisterà servizi personali, mezzi di locomozione,
servizi di istruzione superiore, etc. in poche parole sosterrà con la sua
capacità di spesa un intero mondo intermedio di servizi alle persone; detto con
uno slogan, ‘Il lavoro buono produce
lavoro’).
Invece di fondare l’azione su un welfare fondato sui
trasferimenti, l’assistenza e la generica pulsione della domanda interna
(welfare fallace, che comunque oggi si cerca di smantellare), Minsky propone di
cambiare le regole sociali e partire
proprio dalla semplice e diretta creazione di lavoro.
La proposta di Friedman è criticata nell’intervento
del 1969 per essere, in condizioni di pieno impiego, inflazionistica e di
complessa disseminazione di effetti. Ed in quello del 1972 per essere, come è,
una resa del capitalismo che sa di non poter far funzionare il sistema a
vantaggio di tutti, e cerca soluzioni ad hoc.
Un lancia in favore della “deliberata creazione di un
adeguato numero di posti di lavoro” viene anche da un autore significativamente
più spostato sul versante liberale, come il premio nobel e grande specialista,
Robert Solow, nelle sue Tanner Lecturer del 1998 (in italiano “Lavoro
e welfare”) nel quale critica la politica di Clinton che aveva appena
proposto il suo pacchetto di “politiche attive del lavoro”. Si trattava di un
meccanismo di disincentivazione a vivere a spese del welfare per il quale dopo
un certo numero di offerte di lavoro rifiutate si perdevano i benefici. Sulla
stessa linea vanno in quegli anni, ovvero quindici anni fa, Blair (nel 1998) e
Schoreder (dal 2002), e viene avanzata da Boeri in Italia nel 2000. Si tratta
dei principi del work requirement e
del time limits (i sussidi
sono subordinati alla disponibilità, dell’assistito, di accettare le offerte di
lavoro alle condizioni offerte dal mercato e alla condizione ulteriore che
nella vita non se ne possono usufruire per più di cinque anni complessivi).
Per Solow il rischio di tali politiche è di attivare
una deflazione salariale progressiva dal basso (anello dopo anello, per così
dire) e di aumentare la stessa disoccupazione al termine. In effetti è
esattamente ciò che avviene. Lo spostamento graduale verso economie a salario
più basso deprime gli investimenti e l’innovazione, ostacola l’impiego dei
fattori e ne spreca, si assesta progressivamente su equilibri sempre più bassi.
Questo punto merita qualche attenzione: Hicks
sottolineava una cosa abbastanza ovvia, a pensarci, “una variazione nei prezzi relativi dei fattori di produzione è in sé
una molla per l’invenzione, e per l’invenzione di un particolare tipo, quella
rivolta a economizzare l’uso di un fattore che è diventato relativamente
costoso”. Dunque avere un ambiente economico in cui il lavoro è
economico induce a cercare meccanismi che lo impiegano in vece della
tecnologia. Ma ciò induce a spostarsi verso prodotti semplici nei quali si
incontra la competizione e interferisce negativamente con il posizionamento del
paese nel medio termine.
Qui l’interesse a breve termine dei datori di lavoro
(di avere una forza lavoro economica e disciplinata) si scontra con quello a
medio termine del paese, introducendolo in un sentiero di declino.
Accade qualcosa del genere anche per lo sviluppo
tecnologico, che è fortemente implicato nella creazione di lavoro e nel
sentiero dinamico dell’economia.
In questa direzione è utile guardare anche al libro di
Atkinson, “Disuguaglianza”,
il cui messaggio centrale è che l’ineguaglianza va guardata a partire da un
equilibrio generale tra mercato del lavoro, del capitale e dei prodotti. In
particolare “l’economia non deve essere guardata solo come uno schema di flussi
di reddito, ma anche in termini di localizzazione del controllo” (p.108).
La sua terza proposta è, infatti: “il governo deve adottare un obiettivo
esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale
obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo
cercano” (p.144). Nella discussione di questa proposta viene citato Minsky e
quindi la proposta è articolata nei termini secondo i quali gli individui che
cercano un impiego, soddisfacendo alcuni requisiti (anzianità di iscrizione alla
Public Security) abbiano garantito un posto di lavoro corrispondente ad un
numero minimo di ore settimanali (35) retribuite a salario minimo presso un
ente pubblico o una organizzazione no-profit. Ore scalabili da quelle
eventualmente svolte nel privato (es. se uno svolge 15 ore ha diritto ad altre
20). Naturalmente “lavori ben fatti” (p.149). la cosa si aggiunge a forme di
reddito minimo di missione (ad esempio per i figli (proposta 13).
Dunque il grande specialista inglese propone sia il “Lavoro di ultima istanza”, sia il “reddito garantito” nel contesto del suo
progetto complessivo e molto articolato, per il quale devo rimandare
direttamente al libro. La trasformazione in corso del sistema economico, che
vede le forze potenti dell’allargamento del sistema produttivo (sia per effetto
della mondializzazione sia delle innovazioni connesse con le nuove tecniche di
comunicazione e dell’informatizzazione intimamente connesse), sia delle diverse
forme di automazione produttiva, lo porta a prevedere un bilanciamento da
attuare caso per caso di “reddito di partecipazione” universale, sussidi
mirati, e “lavoro garantito” per i disoccupati involontari.
Mi pare anche pertinente rileggere la proposta,
sensibilmente diversa, di André Gorz (in “Metamorfosi
del lavoro”, 1988) che propone una progressiva, graduale, liberazione dal
tempo del lavoro, in sincronia con l’aumento della produttività dovuta al
progresso tecnologico, offrendo in sostanza un “secondo assegno” pubblico a chi
riduce le ore di lavoro. In questo modo le ore non lavorate sarebbero pagate al
prezzo di quelle lavorate, con tutti i differenziali che il livello di
competenza ed inserimento nel mondo del lavoro implicano). La proposta è molto
articolata, e anche qui si deve rimandare al libro, ma in sostanza si immagina
un nuovo patto sociale in cui il dovere di ognuno sia prestare un “tot”
(decrescente al livello della tecnica) di ore di lavoro nel corso della vita
finanziandolo con un’imposta sugli incrementi stessi di produttività
socialmente riconosciuti. Una sorta di tassa sul “general intellect” o, per
usare una formula contemporanea, una “tassa
sui robot” unita ad imposte sui prodotti sgraditi in modo da orientare i
consumi in senso socialmente utile.
Questa ultima imposta avrebbe anche l’effetto
secondario di frenare il tendenziale ribasso dei prezzi dei prodotti
automatizzabili e potrebbe essere resta sterile per gli effetti sulle
esportazioni con apposite deduzioni.
Questa proposta non assomiglia a quella del “reddito
garantito”, che Gorz reputa recisamente “di
destra” (ricordando come fosse cavallo di battaglia sia di Hayek sia di
Milton Friedman), in quanto “ogni
cittadino deve avere diritto a un livello di vita normale, ma ognuno deve anche
avere la possibilità (il diritto ed il dovere) di fornire alla società
l’equivalente in lavoro di ciò che consuma” (p.225).
La questione evoca rilevanti distinzioni che
coinvolgono il senso stesso delle parole, perché per molti (come per Gorz,
appunto) “lavoro” è connesso con la gerarchia e la costrizione di cui facciamo
costante esperienza in questa società, mentre per altri (tra cui non c’è Gorz) il
“reddito” evoca la libertà derivante dai consumi, dalla possibilità di scelta
nel grande e multiforme scaffale della modernità. Ne deriva la contrapposizione
tra alienazione e libertà.
Per il filosofo francese, ad esempio lavoro è
intrinsecamente etero diretto. Lo è specificamente dalle forze sistemiche e
dalla logica ad esse consustanziale e sotto tre profili:
-
l’organizzazione del processo
lavorativo,
-
il rapporto con il prodotto che il
lavoro ha lo scopo di fabbricare,
-
i contenuti del lavoro stesso.
Si è quindi
autonomi solo se il lavoro è auto organizzato, si prefigge da sé i suoi scopi,
è umanamente arricchente (p.90). Se, con
le parole del papa, rende “più” persona.
Abbiamo appena letto l’esperienza delle lotte
operaie nella Fiat in cui il tema del lavoro diretto è quello che appare
come centrale.
Messa in questi termini è la stessa questione posta da
Husserl: “il dominio della natura verte
sulla realtà astratta del mondo matematizzato o sulla realtà sensibile del
mondo vissuto?” (da “La crisi delle
scienze europee”, cit, p.99). A questo livello, alla tecnica non si può
chiedere di non separare il lavoro dalla vita e le culture. La tecnica accresce
in effetti l’efficienza del lavoro, ne riduce in certo modo la pesantezza,
ma il prezzo è “il dominio dispotico di sé in cambio di un più ampio dominio
sulla natura”. In altre parole, e contemporaneamente, “restringe il campo dell’esperienza sensibile e l’autonomia
esistenziale, separa il produttore dal prodotto al punto che non conosce più la
finalità di ciò che fa”. Dunque su questa linea di critica (che da Husserl,
coetaneo di Heidegger e parte della stessa dimensione di critica della tecnica,
passa per Marcuse alla Scuola di
Francoforte, e di qui lascia tracce in Habermas, poi riprese e rafforzate
da Honneth e come vedremo rimesse in luce ed in una struttura concettuale
aggiornata da Jaeggi), il lavoro non
può essere la fonte di senso della vita, perché è orientato allo spirito
della tecnica, che è autoreferente. Il lavoro serve quindi ad economizzare il
lavoro stesso, si muove in un circolo di efficientazione, calcolabilità,
controllo, che trova senso solo in sé e dal quale non si può sfuggire. La
conseguenza di Gorz è radicale: identità
e realizzazione personale devono essere cercate in un “lavoro non tecnicizzato”
(cfr. p.102).
In questo rovesciamento di mezzi e fini, auto
programmato dallo spirito della tecnica (ovvero dallo spirito del capitalismo),
si perde quindi la ragione per ottenere tutto questo economizzare tempo e
sforzi. Si smarrisce la ragione socialmente pretendibile.
Per Gorz questo scopo può essere solo la liberazione
del tempo in se stesso, per allargare il
“tempo del vivere”. Il “tempo del vivere”, non il “tempo libero” nel quale
si creino altre occasioni di produrre lavoro disciplinato. Questo è un altro
snodo dell’argomentazione: nello spazio liberato dalla immane potenza
della razionalità economica è necessario che cresca una diversa razionalità,
che non sia esso stesso colonizzato da questa. Altrimenti non sarà liberato, ma
solo esteso. Decidere quando “mi basta”, e non restare nell’incantesimo che “di
più vale di più”.
l lavoro salariato può essere superato solo così, mettendo insieme creativamente la piena
occupazione e la riduzione dell’orario di lavoro, o meglio la riduzione del
tempo di lavoro complessivo, con forme di reddito complementare ed integrativo.
Nel tempo liberato trovare forme per assicurare l’espansione delle altre due
forme di lavoro e non lavoro, le funzioni
di cura e il lavoro per sé.
Ma soprattutto articolando insieme al diritto ad avere dalla società le condizioni
della propria libertà (in primis quelle economiche) il dovere di rendergli il servizio che
si riceve.
Scriveva Giuseppe Mazzini, in “Dei
doveri dell’uomo”, (con una formula che ricorda quella di Marx di pochi
anni successiva): “qualunque è disposto a
dare pel bene di tutti, ciò ch’ei può di lavoro, deve ottenere compenso tale
che lo renda capace di sviluppare, più o meno, la propria vita sotto tutti gli
aspetti che la definiscono” (p 110).
Dunque per tentare di giungere a qualche conclusione
di questa ricognizione molto modesta, credo che l’alternativa secca tra
“reddito e lavoro” non sia necessaria e anche, in certo grado, scorretta. Il
primo può scivolare verso forme di individualismo edonistico profondamente
radicate nella nostra cultura. Non è necessario che accada, il tempo liberato
dal lavoro potrebbe anche articolarsi alla maniera dell’otio aristocratico
(greco o romano), che è tempo dedicato alla coltivazione dell’essere, una
concezione che era evocata nella conferenza di Keynes del 1930 “Prospettive economiche
per i nostri nipoti”. In
questa diversa direzione la progressiva riduzione del tempo di lavoro aprirebbe
a forme di uomo post-faber, capace di socializzazione liberata e di creatività
e autogestione.
Ma anche in questo caso fortunato, la mia domanda a
questa ultima più che rispettabile prospettiva è: dove si formerebbe la società? Che è creata dall’incontro del
diverso e dalla armonizzazione dei piani di vita individuali per fini
collettivi? Non si potrebbe rischiare, in questa utopia di perdere comunque delle
dimensioni dell’umano?
In altre parole, io temo che troppo tempo “libero”
desocializzi. E rischi di condurci facilmente verso una società duale
di connessi tramite il lavoro e di sconnessi che vivono in subculture non
comunicanti fatte di consumi compensativi (ed identitari), di intrattenimenti
distrattivi gratuiti (che non mancheranno), e di comunicazione clanica (tramite
recinti come Facebook). Una versione tecnologica del “pane e giochi” in una non-società divisa in
patriziato e plebe da controllare (non deve andare necessariamente così, ma il
rischio c’è, si può leggere questo).
È probabilmente questione di bilanciamento, come
propone Atkinson, ma non bisogna mai perdere la nozione che il lavoro ben
inteso è condotto sempre con altri, è in
sé socialità, pur se entro lo spirito della tecnica verso la quale ci avvisa
Gorz; se è liberato delle costrizioni può essere quindi veicolo di
formazione dell'individuo e insieme della società.
A questo punto possiamo tornare a papa Francesco, che
ha molto in comune con Gorz nella critica alla tecnica.
L’obiettivo di una società non è avere un “reddito per
tutti”, ma avere una dignità per tutti.
“Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere
non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro,
senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti.
Qualunque lavoro si presenterà, nelle forme della evoluzione indotta dalla tecnica, nell’intreccio tra messa in contatto, normalizzazione e automazione, per Bergoglio, dovrà essere lavoro. Perché è contro la dignità delle persone certificarne l’inutilità per gli altri. Ridurli solo a consumatori.
Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse
molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un
cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma
dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. Si va in pensione
all’età giusta, è un atto di giustizia; ma è contro la dignità delle persone
mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare un assegno dello Stato, e arràngiati.
<Ma, ho per mangiare?>. Sì. <Ho per mandare avanti la mia famiglia,
con questo assegno?> Sì. <Ho dignità?> No! Perché? Perché non ho
lavoro.
La distinzione che pone è quindi tra sopravvivere, e davvero vivere. Avere il tempo di vivere, diceva Gorz. E solo il lavoro riconosciuto come tale fornisce la dignità, “unge della dignità”.
Il lavoro di oggi sarà diverso. Senza lavoro, si può
sopravvivere; ma per vivere, occorre il lavoro. La scelta è fra il sopravvivere
e il vivere. E ci vuole il lavoro per tutti. Per i giovani… Voi sapete la
percentuale di giovani dai 25 anni in giù, disoccupati, che ci sono in Italia?
Io non lo dirò: cercate le statistiche. E questo è un’ipoteca sul futuro.
Perché questi giovani crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro
che è quello che dà la dignità. Ma il nocciolo della domanda è questo: un
assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve
il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti. Credo di avere
risposto più o meno…”
La dignità è accogliere, in altre parole, lo sguardo
dell’altro, e rispondervi nello scambio, l’uno verso l’altro, del reciproco
servizio. Come diceva Marx, “Il rapporto dell’uomo con se stesso è per lui un
rapporto oggettivo e reale soltanto
attraverso il rapporto che egli ha con altri uomini”.
Certo c’è almeno una condizione, non si deve creare. Quella
che Marx, nei Manoscritti economico
filosofici del 1844, chiariva così (corsivi nell’originale):
“Se quindi egli sta in
rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto
ad un oggetto estraneo, ostile,
potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di
questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente e indipendente
da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non
libera, si riferisce ad essa coma a un’attività che è al servizio e sotto il
dominio, la coercizione e il giogo di ogni altro uomo” (p.81).
E questa porta al grande tema della libertà nel lavoro.
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