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sabato 26 aprile 2014

Giuseppe Berta, “Oligarchie. Il mondo in mano di pochi”

  
Per Il Mulino è uscito questo piccololibricino, scritto da uno storico che insegna all’Università Bocconi, e che inquadra in un’utilissima prospettiva storica e in un confronto internazionale il tema delle élite di governo. Ci sono molte cose interessanti nel libro, malgrado le sue piccole 120 pagine (spero preludio ad un più esteso lavoro); tra queste il confronto con il Parlamento inglese del 1761, con quello del 1860, e la focalizzazione della diversa dinamica di selezione delle élite e di funzionamento delle stesse. Quindi il confronto con i casi orientali del nostro secolo: Singapore, con la sua “democrazia autoritaria”, e la Cina con la sua oligarchia non democratica.

Ma più di ogni altra cosa, parla all’intelligenza del presente la rilettura del governo della globalizzazione dell’ottocento (il ciclo di apertura dei commerci ed interconnessione dominato dalla potenza inglese che si sviluppa tra il 1870 ed il 1914), a confronto con quello della globalizzazione “americana”, iniziata negli anni ‘90 (con le aperture di Clinton e il WTO) ed ancora in corso (anzi, in accelerazione nel nuovo millennio). Quest’ultimo tentativo di “governo”, da parte di èlite che hanno perso la concentrazione fisica e la coesione sociale e culturale dell’ottocento (quando era tutta concentrata nella city e usciva da un paio di scuole), è letto in particolare tramite il caso esemplare del Trattato di Maastricht e l’Agenda di Lisbona e la testimonianza di Guido Carli. Si tratta di una forma di governance sovranazionale, che cerca esplicitamente di restringere di nuovo il campo decisionale nelle mani di una ristretta élite tecnocratica ancora dominata sostanzialmente dalla finanza (come nell’ottocento), riportando le lancette della storia a prima del Compromesso di Bretton Woods, ed è qualificata da Berta come una “democrazia oligarchica” accusata di voler rimuovere, insieme alla democrazia popolare, la storia e il carattere dei popoli. Una rimozione che non manca di provocare reazioni sempre più forti e giustificate.

L’Italia fu rappresentata nel cruciale negoziato di Maastricht da Guido Carli, Ministro del Tesoro del Governo Andreotti (che è in realtà il primario responsabile delle due scelte gemelle dell’adesione allo SME e all’Euro, deciso nel Trattato che crea l’Unione Europea) nel 1991. Queste due date essenziali della storia italiana recente determinano la devoluzione di sovranità entro uno schema Europeo già preordinato –nell’asse Francia-Germania- all’affermazione del modello sociale ed economico nordico (rappresentato in Italia come “vincolo esterno”): 1978 e 1991. Nella prima data l’Italia aderisce allo SME, malgrado le perplessità ed opposizione di alcuni, nella seconda aderisce alla UE, e di fatto, all’Euro (che nascerà di lì a pochi anni di serrata trattativa, come ricorda anche un protagonista come  Sarrazin).
Ma restiamo al testo, Carli conduce la trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente.
Partendo da questa analisi, tutt’altro che priva di fondamento, Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente Carli vede quindi che la <posta in gioco> del Trattato è <la riforma del potere>; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini”.
Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un maggiore <potere> dei <singoli> cittadini abilitati a <decidere>. Cosa? Cosa possono <decidere> i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o associano, che non partecipano a processi politici?
Lo dice lui stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere residuale è nel diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. In altre parole la democrazia che resta è quella “dei mercati” e l'azionabilità è per censo. Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, [cosa che] rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7).


Questo i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e rovesciamento di due secoli di pensiero politico democratico, di ogni prassi democratica, di ogni lotta condotta in Europa dalla rivoluzione francese ad oggi, questo vero e proprio pensiero eversivo, è la ragione che il Ministro della Repubblica (che ha giurato sulla Costituzione Italiana), perfettamente cosciente di attuare una “rivoluzione del potere”, promuove nel negoziato. Cerca, insomma, l’implementazione di una “federazione europea basata sul principio dello <Stato minimo>, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa unitaria”. Questa Federazione è l’unica, a suo parere, che può resistere agli “urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi”.

E’ questa visione della globalizzazione (ma siamo nel 1991, dunque ai suoi esordi), e del processo di crollo dello schema d’ordine della guerra fredda (siamo negli anni in cui l’Urss di dissolve), che ispira il tentativo delle èlite finanziarie e politiche, di cui Carli è da sempre parte integrante, internazionali di ricondurre ad uno schema più semplice le forze sociali e politiche che agitano le arene nazionali. Dunque i paesi del sud (e l’Italia in particolare), come sottolinea opportunamente Berta, devono abbandonare il proprio modello storico di sviluppo (imperniato su una versione dell’<economia mista> che aveva fatto il dopoguerra).
Ma, dato che non esiste il necessario consenso politico e sociale per questa trasformazione, viene in soccorso lo strumento dell’Euro (e dell’intera Unione Europea) per “ridurre e contenere gli spazi della democrazia, almeno di quella che si è sperimentata in Italia dal 1945 al 1993, in quanto non più compatibile con l’assetto di una nuova Europa” (come scrive giustamente Berti). Una formazione istituzionale il cui assetto deve “corrispondere alle trasformazioni poi rubricate sotto l’etichetta onnicomprensiva della globalizzazione” (p. 102). Questa chiarissima scelta liberista, che Berti qualifica come espressione della volontà di “subordinare le istanze politiche all’egemonia di un’economia desiderosa di autoregolamentarsi fin dove può” è appena temperata dal tentativo (che Carli dice di aver condotto senza successo) di far inserire nella <nuova costituzione monetaria> l’obiettivo della lotta alla disoccupazione a fianco alla stabilità dei prezzi (come è nella missione della FED). Chiaramente aggiungere ai famosi Parametri di Maastricht anche un target di disoccupazione avrebbe mitigato la purezza ideologica “nordica” del disegno, ma non avrebbe cambiato la sostanza delle cose. Il cuore del progetto è di ridurre la partecipazione democratica.

Ridurre la partecipazione al fine di consolidare il potere di élite ed oligarchie convinte di poter guidare la navicella europea nei mari tempestosi del futuro in modo più consapevole e saggio rispetto ai cittadini stessi. L’unico punto in cui, secondo la visione dell’ex banchiere Carli, la voce degli uomini e le donne, che subiscono le conseguenze delle scelte fatte dagli esperti, può esprimersi è nelle individuali scelte di investimento. L’unica democrazia che può restare attiva è quella “dei mercati”. Detto in modo diverso, l’attuale condizione in cui il “potere” cui rispondono le azioni della BCE e della Commissione è determinato dai “mercati”, e dal sistema finanziario attraverso il quale si esprime, è assolutamente compresa, prevista, intenzionale. Si tratta di un rovesciamento della base stessa del potere democratico che si stenta a comprendere nella sua portata ancora oggi.
La cui piena comprensione porterebbe, ad una necessità di mobilitazione di cui, peraltro, iniziano a vedersi tracce. Tracce che si amplieranno e porteranno ad una nuova fase rivoluzionaria o ad una deflagrazione come si è vista nella prima metà del novecento (o entrambe). A spingere in questa direzione sono le stesse dinamiche di accumulazione e concentrazione, e quindi d’impoverimento e degrado, determinate da un governo delle élite per le élite. Da una distribuzione troppo ristretta e ineguale, da un’inefficienza di cui è traccia evidente la crisi attuale che ormai supera il quinto anno.


Ma restiamo ancora un attimo sul bel testo di Berta, perché c’è almeno un confronto che deve essere ricordato: nel Parlamento inglese che gestì la nascita dell’Impero e la prima globalizzazione, intorno al 1860, solo i più ricchi potevano accedervi (ai “Comuni”, mentre all’altro ramo di entrava per nascita e di diritto), in conseguenza, secondo l’analisi di Bagehot, scarseggiavano le personalità di talento e i veri statisti (come Gladstone e Disraeli). La dinamica fu gestita quindi da una èlite cosmopolita degli affari incardinata nella city di Londra e presente dove contava nei corpi parlamentari. Questa ristretta cerchia di famiglie, con studi e frequentazioni comuni, ben presente in tutti gli organi pertinenti, sicura della sua missione, rendeva possibile reagire immediatamente a crisi e variazioni, creando le necessarie compensazioni (il libro richiama l’esempio della crisi Argentina del 1890, in cui l’immediata creazione di un Fondo di Garanzia da parte degli ex merchant banking William Lauderdale e George j. Goshen, rispettivamente ai tempi Governatore della Banca d’Inghilterra e Cancelliere dello Scacchiere, stabilizzò una situazione che poteva portare ad una crisi globale gravissima). Si trattava di un’oligarchia aristocratico-finanziaria capace di muoversi, quasi non vista, tra le sponde delle istituzioni, del mercato e dell’impero, attraverso Istituzioni interconnesse impermeabili alla democrazia di massa che si presenterà di fatto sulla scena solo al suo tramonto.
Questo sistema, come è noto, crollò con la guerra mondiale del 1914 e la crisi del ’29 che provocò insieme la fine della globalizzazione, dell’Impero Inglese e l’irrompere sulla scena dei partiti di massa. Per una lettura delle conseguenze si può leggere Werner-Muller; comunque il compromesso di Bretton Woods, con il notevole contributo di saggezza di Keynes, portò a un trentennio di espansione e pacificazione sociale che la nuova globalizzazione (che è anche un richiamo di potere verso nuove èlite cosmopolite molto meno coese ed omogenee) ha interrotto.

Il tentativo eurocratico (p.105) ricorda lo sforzo di riprodurre “in vitro” questo assetto sociale e sistema ottocentesco; sotto la spinta della competizione internazionale (alla quale ha coscientemente aperto ogni porta) e nella ricerca di saggi di profitto più elevati, a danno sostanzialmente del mondo del lavoro (europeo e mondiale), sono stati create le strutture necessarie per determinare sempre la prevalenza del più forte e competitivo, la disarticolazione di ogni possibile opposizione sociale, l’abbandono delle tradizioni locali, della stessa natura umana (non riducibile al mero perseguimento del profitto immediato).
Come dice Berta, “in concreto, ne è derivata una cancellazione pratica della storia. Come se il passato e la specificità dei modelli nazionali di sviluppo non contassero nulla e, raggiunto un certo grado di crescita, dovessero per forza convergere verso paradigmi validi per tutti” (p. 118). Un’idea che solo èlite chiuse nelle loro confortevoli stanze (per lo più d’albergo) potevano concepire. Ma che inizia a far strada al dubbio non solo in intellettuali di sinistra come Streeck (ricordato più volte da Berta) ma persino in architetti di destra del sistema come Sarrazin, che al fine propone di lasciare l’Euro proprio per l’impossibilità di piegare tutti i modelli sociali ed economici al modello tedesco (che, pure, lui considera il migliore).

La storia finirà per “vendicarsi” sul tentativo di violenza dell’eurocostruzione, probabilmente insieme ad esso (l’Euro), teme Berta, cadrà per lungo tempo lo stesso progetto di costruzione europeo. Questo esito (che è temuto in effetti da molti) sarebbe tragico, aprirà la strada a una fase di tensioni e conflitti più esplicita di quella odierna. Ma non si può stare in mezzo ad una sorta di guerra economica (del nord Europa verso il sud) senza reagire.
Se l’oligarchia (questo l’esito sostanziale della ricerca di Berta) “è una caratteristica del mondo globalizzato” (p.120), e la versione europea appare come “la più rigida di tutte” e la più potente, qualcosa bisogna pur fare.


Prima che ci pensi la Storia.

1 commento:

  1. Grazie, un libro che sicuramente leggerò. Segnalo un piccolo refuso, lì dove è scritto " Questo sistema ... crollò con la crisi del '29 e la successiva guerra mondiale del 1914... ".

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