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venerdì 5 luglio 2013

B&B&B tesi a confronto sull’euro. Bagnai, Bisin, Bini Smaghi.


Vorrei tentare una lettura congiunta di tre libri significativi, anche se opposti, sulla crisi dell’euro: Il tramonto dell’euro (Imprimatur, 2012) di Alberto Bagnai; Favole & Numeri (Università Bocconi editore 2013) di Alberto Bisin; Morire di austerità (Il Mulino 2013) di Lorenzo Bini Smaghi.  

Si tratta di libri complessi, ma possono aiutare ad illuminare i nodi del presente e la difficoltà delle scelte che il paese ha davanti.  

Bini Smaghi (dal 2005 al 2011 membro del comitato esecutivo della BCE, economista) sembra sostenere, nel suo libro, che al fondo il problema che il paese ha davanti è aggravato –se non prodotto- dalla democrazia, che ci impedisce di fare le scelte giuste con il necessario tempismo e radicalità. Queste scelte passano, a suo parere, sostanzialmente per la riduzione dell’indebitamento pubblico per la via della riduzione della spesa. Le politiche di austerità sono quindi inevitabili, e lo erano anche prima, solo sono state fatte tardi e male per le esitazioni della politica.
Dal punto di vista macroeconomico, infatti il piano è semplice e chiaro: bisogna recuperare competitività rispetto ai competitori riducendo i salari ed i prezzi, contraendo quindi la domanda interna. Con il recupero di competitività ottenuto in tal modo, migliorare le performance del sistema economico rispetto all’estero, aumentare le esportazioni e riportare in attivo la bilancia commerciale.
Lo snodo centrale dell’ampio ragionamento di Bini Smaghi è, per me, l’asserita necessità di adattare il modello di sviluppo dell’occidente (in particolare europeo continentale), uscito dalla lunga fase storica iniziata con la fine della crisi del ‘36 fino alla crisi energetica degli anni settanta e poi solo parzialmente rivisto nel riflusso degli ultimi trenta anni; rimettendo in questione diritti acquisiti da parte della maggioranza della popolazione (p.179). Superando quindi drasticamente il modello del welfare state espansivo, nel quale per decenni si era tentato di “combinare crescita con equità senza danneggiare né l’una né l’altro” (p.183). Quel che, secondo l’autore, va compreso è che il welfare non è più compatibile con la competitività dei sistemi economici occidentali. Senza esplicitarlo, insomma, Bini Smaghi sostiene esistere un trade-off tra equità e crescita, e dunque anche tra democrazia popolare e crescita. Tradotto fuori del gergo economicista, non si può avere più la crescita se si ha la democrazia popolare. Le scelte necessarie devono essere prese fuori della democrazia. 

Alcune significative conseguenze della critica alla democrazia (popolare) sono che gli organi di controllo non devono dipendere dalla politica (che è chiaramente in difficoltà a far prevalere la crescita sull’equità, secondo le sue stesse parole), quindi che bisogna introdurre vincoli esterni (alcuni già presenti, altri da costituzionalizzare). Una tesi decisamente chiara, fortemente sostenuta, estremamente problematica (in modo peraltro consapevole). Per Smaghi la crisi è, infatti, soprattutto politica, riflette sostanzialmente l’incapacità delle democrazie a risolvere problemi che si sono accumulati in oltre un ventennio; riflette, cioè, il fallimento a riformare l’intero assetto sociale.
In sintesi, le cause sono il profondo mutamento della struttura degli scambi (tra aree del mondo) ed i processi tecnologici (che hanno un carattere ovviamente distruttivo, in senso schumpeteriano), tutte forze che rendono urgente una maggiore integrazione del sistema economico (in particolare italiano) nel nuovo contesto globale. La soluzione, in questa fase, sembra a Smaghi di fondare l’economia meno sulla domanda interna e più sulla competizione esterna, per “catturare” maggiori quote di mercato mondiale (p.10). Come vedremo nel seguito si tratta, ad essere gentili di un palliativo.
Una parte di notevole interesse nel testo è nella ricostruzione del percorso che ha portato al presente, dal punto di vista dell’istitutional building europeo (un percorso che l’autore ha vissuto da protagonista). Viene ricordato al lettore che la costruzione monetaria era prematura e a forte rischio di fallimento sin dall’inizio, ma le alternative erano:

1-     continuare con le monete esistenti, cercando di tenerle in un campo di fluttuazione non troppo ampio con accordi bilaterali; una strada tentata con scarso successo (il “serpente valutario”). Il dilemma era in sostanza entro un “trilemma”, bisognava scegliere se rinunciare: al libero movimento dei capitali, alla stabilità valutaria o alla sovranità monetaria. Il rischio politico era di innescare una deriva di azioni-reazioni alla prima svalutazione (più o meno volontaria) e di avviare reazioni protezionistiche, incompatibili con un percorso di unificazione.
2-     rafforzare la stabilità monetaria intorno al marco, ma la Germania rifiutò (ad esempio nella crisi del 5-6 settembre 1992) di farsi carico di questa responsabilità. In quel caso gli fu chiesto di abbassare i tassi di interesse che aveva alzato per contrastare l’inflazione, ma che attiravano capitali, creando gravi problemi agli altri paesi europei.
3-     creare un euro, ma solo con alcuni paesi a maggiore compatibilità. Cioè in “zone” più conformi alla teoria delle Aree Valutarie Ottimali (su cui torniamo dopo). Abbastanza razionale dal punto di vista economico, ma molto problematica da quello politico. Difficile scegliere i criteri, difficile lasciare la Francia dentro (senza i paesi del sud) a confrontarsi da sola con la Germania, difficile tollerare nel mercato unico un gruppo di paesi di fatto liberi di competere tramite la moneta (preoccupazione esplicita dei negoziatori e politici tedeschi). Si finì per individuare il criterio del disavanzo pubblico, fissandolo su criteri non economici al 3% (quasi tutti erano oltre). Quindi, ad aggravare le conseguenze di una decisione probabilmente sbagliata, si decise di dare poco tempo e di procedere alla convergenza sul criterio di accesso.  

Stabilito che sicuramente la fretta fu un errore, e che il criterio del 3% è arbitrario, per Bini Smaghi, però, indietro non si può tornare. Da qui parte una difesa a  360 gradi dello status quo: sarebbe un evento drammatico; potrebbe generare infiniti contenziosi sui contratti con l’estero; potrebbe causare aumento dei prezzi delle merci importate e (in misura minore) di quelle interne; genererebbe una drammatica redistribuzione dai risparmiatori ai debitori (p.37).  

Ma più importante del rischio è la distrazione. Per l’autore focalizzarsi sulla moneta porta a dimenticare le “vere priorità”, che sono –come detto- aggiustare l’assetto economico e sociale per i nuovi tempi che dobbiamo affrontare, quindi secondo l’analisi prima condotta alleggerire il welfare e ridurre la domanda interna.
Infine, l’uscita dall’euro porterebbe ad un irreparabile danno politico, distruggendo lo sforzo plurigenerazionale all’integrazione fatto dal dopoguerra ad oggi.  

Giova a questo punto ricordare che la crisi è grave, anzi epocale, ma non per tutti. I tedeschi fino ad ora hanno visto poco e per lo più la percepiscono come un problema di debito (pubblico e privato) dei paesi del sud. Degli “spreconi”. Non vedono –e non gli viene raccontato per l’assenza di una autentica sfera pubblica europea- che gli squilibri accumulati negli ultimi anni, in termini di divario di competitività e di crescita differenziale dei salari, hanno generato ormai un enorme differenziale (circa del 26% nel confronto Italia-Germania) che era nascosto dai movimenti di capitali in cerca di maggiori rendimenti. Questi capitali facili hanno surriscaldato i paesi periferici, favorendo bolle immobiliari e creditizie, e per questa via hanno indotto una crescita di prezzi e salari non in linea con l’incremento di competitività e produttività. Questa è la diagnosi (p. 60-63). Il bilancio pubblico è dunque anche per Bini Smaghi sintomo, non causa, dello squilibrio. Ne consegue che le politiche rivolte ad affrontare il sintomo hanno in definitiva accentuato la causa. Ciò che bisognava fare era invece irrobustire (con ricapitalizzazioni dirette) il sistema creditizio, che subisce gli effetti cumulati del rallentamento, del degrado dei titoli pubblici e della crisi di fiducia del mercato finanziario. Altro errore, per Bini Smaghi, sarebbe agire su un altro sintomo e cercare di ampliare la domanda interna. Secondo il suo punto di vista sono, infatti, gli squilibri esterni ad essere causa della crisi, e questi si combattono solo recuperando competitività per via di riduzione di prezzi e salari (in modo da aumentare la produttività totale dei fattori produttivi).
Anche di qui nella rilettura storica che l’autore ci regala trova origine la forte valutazione dell’utilità del “vincolo esterno”, previsto in vario modo alla formazione della moneta unica. Ad esempio con la proibizione di prestare i paesi in difficoltà, in modo da non favorire l’azzardo morale. Un dibattito che si ripresentò quando si palesò la necessità di un fondo di salvataggio per non lasciare fallire gli Stati in difficoltà che non potevano più agire sulla leva monetaria (dato che di fatto si indebitano in una moneta estera).
In questo contesto ricostruttivo prende forma quello che è il concetto forse centrale del libro: senza crisi i cambiamenti (a causa della debolezza della politica) non si danno. E non esistono cure indolori (le due cose si tengono evidentemente). Ci sono, infatti, solo tre modi per ridurre il debito: ristrutturandolo, con l’inflazione, restringendo le spese. Di fronte a tali scelte difficili è forte la tentazione di forzare la mano e prendere tempo, sperando che siano gli altri a cedere. Ci viene ricordato come la Grecia abbia giocato spesso tale “gioco del coniglio”, ed anche l’Italia poco prima della caduta del Governo Berlusconi (sulla quale il libro ha un gustoso retroscena da raccontare).  

Per completare la valutazione dei “responsabili” viene quindi focalizzata la colpa delle banche (storicamente troppo importanti in Europa, poco capitalizzate e troppo sensibili ai governi) che preferiscono sostenere il debito pubblico con la liquidità centrale, invece di fare il proprio teorico mestiere di prestare all’economia “reale”. Ciò provoca, però, effetti a catena che alla fine le danneggiano. Si tratta di una dinamica quindi auto rafforzante. 

A questo punto possiamo riassumere: il libro di Bini Smaghi ci ha raccontato che la crisi è causata da un differenziale di competitività che viene da lontano, che non se ne esce senza ridurlo per aumentare le esportazioni, e che comunque va ridotto il debito pubblico con la terza leva possibile (il risparmio nella spesa pubblica). Ci dice anche che non giova operare sulla domanda interna. Tutto chiaro.
Peccato che lo stesso libro, con ammirevole onestà, si ricordi di precisare che non tutti possono diventare la Germania; lo fa subito dopo aver ripetuto il ritornello che la correzione degli squilibri deve avvenire al ribasso nei paesi periferici (che hanno fatto correre troppo prezzi e salari rispetto al clima competitivo internazionale di riferimento) e che l’unica strada è la moderazione salariale, oltre all’investimento in ricerca e sviluppo. Cosa succede, però, se l’area economica più grande dopo quella degli Stati Uniti si sposta su un modello basato sulla domanda estera? Ovviamente che la crescita diventa dipendente da una parallela importazione per la quale i candidati non abbondano. Un modello, insomma, fattualmente insostenibile (e questo anche al di là di considerazioni ambientali che pure andrebbero fatte). Siamo a pag. 145. Qualcuno si potrebbe anche arrabbiare.
Qui il testo diventa improvvisamente muto, si limita a dire che ci vuole “una maggiore integrazione dei mercati nazionali in un vero mercato interno, che consenta di sviluppare una crescita interna del continente”. Che questo poi significhi maggiori consumi e salari più alti in Germania, più che più bassi in Italia, lo aveva appena esplicitamente escluso. Resta quindi un problema senza risposta.
Il resto del libro si occupa di chiudere con cura le porte di uscita: gli Eurobond sono una illusione perché non ci sarà mai il capitale politico per farli; stampare moneta significa solo fa crescere l’inflazione, e non può mai tradursi in diretto finanziamento dei governi per ragioni essenzialmente politiche e di governance; in generale la politica monetaria può solo far guadagnare tempo, ma la parola è al popolo. Appunto. Lo stesso popolo dal quale bisogna proteggersi con il “vincolo esterno”.
 

A questo punto potremmo vedere se Bisin, che condivide lo stesso campo culturale di Bini Smaghi, ha le risposte che evidentemente non ha il nostro. Alberto Bisin (professore di economia alla New York University) scrive un libro molto più aggressivo. Nel quale prende parte per una visione della disciplina economica a metà tra la fisica e la medicina, dotata di solidità empirica e logica. Attacca per questa via le principali correnti classiche (keynesismo, scuola austriaca) di volta in volta per carenze di uno o dell’altro criterio. Prende parte per un lettura della crisi nella quale il vero problema è comunque la produttività totale dei fattori (p.96) per carenza dei servizi pubblici e privati e delle infrastrutture del paese, e nella quale ciò rende necessario un riaggiustamento fiscale di alcune decine di miliardi all’anno (p.78) senza indulgere in ipotesi sottoconsumistiche (cioè nella soluzione apparente di spingere la domanda interna, come se il problema fosse il basso consumo e dunque la sovrapproduzione). Il colpevole dell’erosione della capacità di spesa, per Bisin, non è il mercato (cioè l’ineguaglianza, indotta da meccanismi di mercato non concorrenziali) ma lo Stato, tramite il prelievo fiscale eccessivo. In altre parole, lo Stato preleva risorse e le usa in modo inefficiente.
In questo contesto Bisin attacca direttamente gli argomenti del nostro terzo autore, Alberto Bagnai, sostenendo che lui dica fondamentalmente (p. 94) che: l’euro è strumento della politica imperialista della Germania (tramite svalutazioni competitive a suo vantaggio) e della lotta di classe antisindacale, tramite l’imposizione di un “vincolo esterno”. Qui Bisin si esercita in una “confutazione” per via logica (non è l’unica) che procede per sillogismi francamente troppo semplici. Infatti, se la svalutazione competitiva, in condizioni di moneta unica, si può dare solo con differenziali di inflazione, dunque di prezzi e salari (ma Bisin dice “essenzialmente” solo di salari); ma una maggiore crescita di prezzi e salari in Italia è un’azione di segno opposto al “vincolo esterno” ed alla lotta di classe; per Bisin ne consegue che una delle due dovrebbe essere inefficace e che dunque il progetto (della Germania) è logicamente contraddittorio. Ora, naturalmente, una dinamica come quella descritta “funziona” anche se i due meccanismi tendono a bilanciarsi, purché il paese in vantaggio lo sia in entrambi. Inoltre è un differenziale, dunque si dà anche se i salari scendono in entrambi i paesi, basta che scenda di più in uno. In altre parole, il “progetto” avrebbe senso anche se la moneta unica, e le sue regole, generano un “vincolo esterno” ad entrambi i paesi. Basta che uno sappia di avere migliori condizioni per contenere i prezzi. I due meccanismi, poi non sono così automaticamente connessi (i salari sono solo uno degli elementi che concorrono alla formazione del valore, solo uno dei fattori produttivi e dunque solo una delle componenti nella formazione dei prezzi), ed ammesso e non concesso che viva una contraddizione logica, questo non implica che la politica (che è plurale e sempre multi obiettivo, multirazionale e multi attore) non si sia data. Siamo, infatti, nel campo della storia, non della logica formale.
Stando ai fatti la Germania, aveva il grande bacino di manodopera istruita e sottopagata dell’Est cui ricorrere per moderare i propri lavoratori ed aveva un sistema economico e sociale storicamente più disciplinato ed efficiente. Ed è riuscita a tenere, sia pure di poco, costantemente inferiore alla nostra la sua inflazione, soprattutto agendo sui “fattori di sistema” (oltre che sui salari). Dunque l’euro può aver funzionato in questo modo anche in assenza di un piano esplicito “logicamente coerente”. Nel prosieguo Bisin attira l’attenzione del lettore sul differenziale di produttività che è per lui la prima causa. E questa dipende essenzialmente dall’insieme dei fattori produttivi, non solo (anzi, non principalmente) dai salari.
Anche l’autore italo-americano riconosce con onestà che l’euro è stato fatto troppo presto e male, che l’area valutaria non era ottimale, etc. ma, in modo non dissimile da Bini Smaghi, sostiene che il problema è il debito pubblico e che non ci sono “fatine buone”; dunque si può solo fare una delle seguenti cose:

1-     rientrare, pagare (specificando chi si sacrifica e quando);
2-     fare default;
3-     produrre inflazione;
4-     svalutare uscendo dall’euro, pagando in termini di minore potere di acquisto rispetto ai beni esteri.

Tutte, salvo la prima, sono forme di default, ma cambia chi paga: nel primo caso paga chi viene tassato; nel secondo paga chi ha prestato; nel terzo pagano tutti i creditori, nel quarto paga chiunque importi e guadagna chiunque esporti.
Come si sceglie? Essenzialmente per Bisin in base ad un criterio morale (che è anche funzionale nel medio periodo) “paghi chi ha sbagliato”, cioè chi si è indebitato (cioè i cittadini, attraverso lo Stato) e anche chi ha prestato allo Stato senza ben valutare (p.102). Occorre bilanciare il danno, quindi, tra prelievo fiscale (cioè avanzo primario) e svalutazione del credito (con diversi strumenti).
Anche per Bisin le Banche sono da annoverare tra i colpevoli: troppo grandi per fallire, colpevoli di molteplici azzardi morali, troppo legate al potere statale. Bisogna costringerle a ricapitalizzare (p. 105), in questo un’analisi molto simile a quella di Bini Smaghi.
Come per l’economista della BCE, anche per Bisin, la doppia diga eretta nello statuto della BCE e nei vincoli alla sua azione imposti e continuamente rinnovati dagli stati, sono adeguati e necessari per evitare il rischio morale (questa volta degli stati stessi). La tentazione da evitare è quella di “spendere e spandere”, sapendo che arriverà alla fine la cavalleria BCE. 

Ciò che bisogna fare, insomma, sono interventi di politica fiscale restrittivi, “non scappare dalle proprie responsabilità” (p.108). In questo contesto anche l’ampliamento della spesa pubblica, che è anticiclica, servirebbe solo a guadagnare e sprecare tempo; con il sollievo conseguente non si farebbero più le necessarie e dolorose riforme (sono le stesse posizioni di Bini Smaghi). Dunque le politiche di riaggiustamento si possono fare solo in condizioni di crisi e poi servono anche a tranquillizzare i mercati, alleggerendo il relativo onere (qui c’è un riflesso della vecchia e screditata posizione della “austerità espansiva” di Alesina).
Alla fine quel che bisogna fare, per Bisin, è: rendere efficiente il mercato del lavoro (più mobile e flessibile); aumentare la produttività totale dei fattori produttivi; ridurre il cuneo fiscale che è per lui la prima causa della riduzione della domanda interna; ridurre la spesa di almeno 35 Mld (da politica, difesa, imprese e previdenza), agire sul welfare (sanità, istruzione e giustizia) per allinearla ai migliori esempi europei.  

 

Il terzo testo sostiene tesi, per molti versi opposte, è Il tramonto dell’euro di Alberto Bagnai (professore all’Università di Chieti-Pescara), la partenza del testo è nel richiamo della tesi di Robert Mundell (1961) secondo la quale se paesi strutturalmente diversi uniscono le loro monete, senza avere perfetta flessibilità dei prezzi, e dei salari, perfetta mobilità dei fattori di produzione, in caso di recessione è indispensabile che i lavoratori dei paesi in maggiori difficoltà accettino di farsi ridurre i salari o emigrino. Altrimenti la moneta collasserà. Questo è quel che sta succedendo per Bagnai (nel 2012 oltre un milione di lavoratori, per tre quarti dal sud, è immigrato in Germania). Era previsto, noto a tutti ed ovvio. Ciò che è stato fatto negli anni dell’unificazione è in altre parole un azzardo, contando che l’unificazione monetaria in assenza di convergenza la creasse nel tempo. Venendo alla discussione in corso sulla crisi, per Bagnai, la tesi dominante che abbiamo letto in Bini Smaghi e Bisin in recenti ed argomentate versioni, è basata su luoghi comuni male assemblati:

·        l’Italia è certamente gravata dalla corruzione, ma c’era anche prima, non è aumentata di recente (o dobbiamo dire che i governi del pentapartito erano un paradiso?) e non è migliorata (secondo il testo è peggiorata) dall’entrata nell’euro.
·        Il secondo pregiudizio è che la crisi sia provocata dal debito pubblico; più vero il contrario, inoltre è più rilevante la posizione finanziaria netta (debito/credito pubblico+privato) nella quale siamo stati normalmente meglio della Germania. Poi Bagnai ricorda che l’economia capitalistica si basa sul debito che è sempre il credito di qualcun altro. Il debito è il motore del capitalismo.
·        Il terzo luogo comune è che il debito, così grave, è generato dalla spesa pubblica improduttiva, qui l’autore contesta che qualsiasi spesa possa essere non produttiva. Può produrre meno di quanto potrebbe, ma qualcuno comunque incassa la spesa e questo attiva circuiti economici lunghi. In sostanza la crisi, per Bagnai, si manifesta come “enorme eccesso di offerta” (p.33), dunque di capacità produttiva eccedente. Per questo la spesa pubblica ha meno controindicazioni in questa congiuntura, non spiazza un investimento privato che non si farebbe (nelle condizioni date di domanda ed offerta).
·        Il quarto pregiudizio è che siamo noi ad essere improduttivi, per Bagnai questo si è verificato solo dal 1996, mentre prima eravamo competitivi con la Germania in termini di produttività. Quindi viene l’argomento che l’euro ci ha difeso dall’esplosione del costo delle materie prime, per Bagnai un effetto molto sopravvalutato. Così come una serie di altri argomenti spiccioli che non giova riportare.
 

Fondamentalmente l’autore attira la nostra attenzione sul fatto che andiamo in crisi sempre quando abbiamo deficit nelle partite correnti con l’estero (fino al 92 di ca. il 2% e dal 2000 al 2010 di oltre il 4%). Il meccanismo (ripreso da Roubini) è: la perdita di competitività a causa della moneta sopravvalutata genera perdita di esportazioni e crescita del deficit della bilancia dei pagamenti (ovviamente), ciò nel medio termine peggiora il deficit del bilancio pubblico ed il relativo debito, a questo punto senza poter svalutare -per abbassare il costo dei fattori produttivi- resta la via di una lunga e penosa deflazione di prezzi e salari. Quindi stagdeflazione che aggraverà la crisi del bilancio e la crescita negativa.
La cosa si può dire diversamente, “se sopprimete la legge della domanda e dell’offerta nel mercato valutario, poi dovrete lasciarla agire sul mercato del lavoro, dove si presenterà come incubo della disoccupazione, o dell’emigrazione” (p.80).
Il meccanismo è descritto nel dettaglio da pag 82 e rispetto al sistema di compensazione Target 2 da pag 89. La sintesi è che la distorsione principale che troviamo nel dibattito e nelle politiche attivate è nell’idea che essere in surplus sia un bene, mentre essere in deficit sia male.
Un’idea assurda (tutti in surplus dove esportano?) e che si riassume nell’impoverire il vicino. Una filosofia economica, il mercantilismo, che è proprio di epoche diverse (dell’epoca dell’imperialismo europeo). Purtroppo sembra il gioco che alcuni vicini del nord hanno inteso giocare con noi (p.103).
Considerando che l’Europa è tutto meno che un’Area Valutaria Ottimale, sembra quasi che l’euro sia stato definito per i soli interessi della Germania (come sostiene Krugman).
Resterebbe una domanda, perché noi abbiamo aderito? La risposta per Bagnai è semplice: “dietro al tentativo di far finta che l’eurozona fosse un AVO, dietro al grande sogno europeo, si intravede in realtà un disegno di compressione delle libertà civili ed economiche delle classi subalterne in nome del famoso vincolo esterno, quello che obbliga, appunto alla svalutazione interna” (p.127). Una tesi molto netta, che viene sostenuta con richiami di discorsi chiave dei protagonisti (Andreatta, Prodi, Napolitano).  

La spiegazione più dettagliata viene affidata alla teoria del “ciclo di Frenkel” (p. 134), che produce vantaggi per alcune classi sociali (dominanti) di tutti i paesi coinvolti. Un’operazione che in Italia inizia con il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, momento dal quale esplode il debito pubblico per l’innalzarsi dei tassi di finanziamento (che erano precedentemente spesso negativi) ed autentico fatto saliente del conflitto distributivo in Italia per Bagnai. Dunque l’euro è il Reagan europeo, quello che determina (con il suo correlato di moralismo e paternalismo) una spesa per interessi che comprime progressivamente quella per i servizi; si tratta di un ovvio conflitto distributivo, se lo Stato è in avanzo primario significa aritmeticamente che spende meno di quel che incassa con le tasse. Il resto, è chiaro, lo dà alla finanza per remunerare il debito (p. 190). Dunque i lavoratori sono disciplinati dal “vincolo esterno” e la distribuzione viene orientata in favore dei profitti, in particolare finanziari. Cresce l’ineguaglianza. Questo, però, fa impennare il debito alimentando il circolo vizioso.
Il meccanismo del quale la Germania finisce per avvantaggiarsi perché ha sempre un poco meno inflazione degli altri, ha una forza lavoro disciplinata ed economica che viene dall’Est, e capitalizza questi vantaggi attraverso le esportazioni, in particolare nei paesi “partner” (come mostrano i numeri).  

Per Bagnai, tutto questo non può durare e non durerà. L’Italia sarà costretta, prima o poi, ad uscire dall’Euro, perché secondo l’autore -che in questo è pessimista- non ci sarà mai la forza politica per ridefinire le regole su un piano di autentica cooperazione ed equilibrio e non di competizione interna “a somma zero” (imperialistica). L’uscita sarà traumatica, ma molto meno di quanto si teme correntemente, e comunque non ci sono alternative.

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